28 luglio, ultimo giorno qui, stanotte si riparte. Terza alba in due settimane, oggi ho fatto prima dei pescatori. Promette di essere il giorno più bello, il cielo è libero da nubi e il mare romba ma meno del solito. Gli uccelli acquatici sono ancora in ritiro nel laghetto alle spalle della spiaggia.
Oggi trattamenti col grande Srikumar, il veterano di qui.
Ieri finita prima lettura delle bozze e di uno dei due libri che mi sono portato. Ho perso meno chili e lavorato meno di quanto mi fossi prefissato, ma non è andata male, e mi sono concesso il lusso – oggi lo è – di un detox pazzesco e di un grande aiuto a invertire la tendenza, a perdere peso. La strada è imboccata, sta a me seguirla. Sto meglio di quando sono partito, questo è sicuro.
29 luglio, ore 1,34
Forse la mia valigia, poiché pronta in pochi minuti, è ancora quella di un viaggiatore. La mia stanza, il mio mini-mondo è rifluito nel mio trolley da cabina senza colpo ferire. Credo che il segreto sia nell’umidità dei panni, che in questo stato occupano pochissimo volume, e nel fatto che quando si lascia una struttura, diversamente da quando si lascia la propria casa, bisogna semplicemente prendere e caricare tutto. Di fatto, è tanto difficile partire – trovare il tempo, i fondi, la destinazione, finalizzare il viaggio – quanto è facile tornare.
Oggi mezza giornata a Trivandrum, per gli ultimi acquisti. Festeggiamo sobriamente il compleanno di Eva con una cena in un’altra struttura, con spettacolino di danza, brindisi a base di tè ayurvedico, e cena vegetariana. Ci si abitua facilmente a mangiare vegetariano, con questa loro cucina che valorizza verdure e legumi come ingredienti principali di numerosi stufati speziati e deliziosi. Molti spunti per la cucina che verrà. Il nome dello chef che mi ha passato alcune sue ricette è Mr Jeffer Khan.
Check in in reception.
Mi sbrigo a chiudere tutto: il conto, le valige, la stanza, la partita. Vado via senza praticamente salutare nessuno, non mi fa piacere ma è andata così.
Come il solito, pur avendo ridotto parecchio il bagaglio, ho portato una serie di cose che si sono rivelate inutili, dalla crema solare ai pantaloni lunghi, al tagliabarba, al 90% della mia farmacia da viaggio, a uno dei due libri che mi prefiggevo di leggere, e per poco anche la guida. Internet ha cambiato anche questo, dei nostri romantici viaggi anni ‘90 mi pare rimanga pochino.
Trasporto verso l’aeroporto con una ricca signora salisburghese, felice di indossare un sari alla prossima inaugurazione – la novantanovesima, a quanto pare – del festival operistico di Salisburgo. Descrive con naturalezza una vita invidiabile, fatta di Safari africani, prime all’opera e frequenti viaggi in Senegal, in India, a Marrakech. Una anziana elegante signora ricca e probabilmente sola che sa divertirsi e si gode quel che ha, con modi inappuntabili. Il mito dell’austriaco rubizzo e montanaro è definitivamente sfatato.
All’aeroporto rincontro la famiglia che prima mi era parsa di francesi e poi di russi, e cambio nuovamente idea su di loro, stavolta su chi ha pagato il soggiorno: penso sia stata la donna giovane, giacché la nonna e il nipote non spiccicano mezza parola d’inglese e sembrano pesci fuor d’acqua. La madre non è con loro, probabilmente starà curandosi dell’imbarco. Li rivedo passare nel finger che li porta a bordo dell’aereo, ed è effettivamente lei a condurli piuttosto frettolosamente a casa.
Mi preparo a salutare l’India. Avvicino al viso le mani giunte, e sento il profumo meraviglioso dei fiori che mi hanno legato al polso alla partenza dal resort, e che nessuno degli addetti ai cinquecento controlli di sicurezza che ho appena passato si è sognato di farmi togliere di dosso.
Una notte ancora in aeroporto, ma non voglio farmi sommergere dai ricordi: voglio restare qui, nel momento, e provare a salutare l’India appropriatamente.
La cintura si allaccia senza prolunga. La partenza è in anticipo, vedremo il decollo. Ore 4,22. Rotta circa 300 gradi, NW.
Ore 7,46, ci prepariamo all’atterraggio. A bordo si surgela. Protesto. Il mio braccialino di fiori indiani si spezza prima dell’arrivo ad Abu Dhabi.
Fuori c’è il sole ma non si vede niente, una sorta di fosca tempesta di sabbia sembra avvolgere gli Emirati.
Alla fine appare, lattiginosa, la forma della rovente Abu Dhabi, col suo grattacielo in foggia di panino, e i suoi palazzoni in costruzione. Atterriamo poco oltre una sorta di bosco di gru alle 8,06, tre ore e cinquanta minuti scarsi dopo essere partiti.
Regola d’oro è partire con un golfino leggero in borsa, magari da utilizzare solo in aereo e in aeroporto.
La torre di controllo di Abu Dhabi fa impressione, sembra una suorona guerriera che offre il petto alla “barbarie nemichen”.
Qui sembra agitarsi una massa di freak dell’aria condizionata, fuori 40 gradi e dentro 18, e la sostenibilità muore congelata.
Noto l’offerta di cibo: se vuoi un cornetto, un hamburger, dei cioccolatini, dei biscotti al burro in una scatola a forma di moschea, o un Chivas Regal, nessun problema. Se invece cerchi un po’ di frutta o un succo fresco, stai come il succo dei tuoi desideri.
I paesi in via di sviluppo o di recente sviluppo sono uno specchio informante, che ci racconta una storia che non avremmo voglia di sentire e della quale pure siamo contributori. Quasi mi faccio una Gray Goose e la pianto di lamentarmi.
In assenza di rete, il telefono rimane sull’ora di Trivandrum, e mi convinco di essere in ritardo, di avere il volo in venti minuti, invece no.
La popolazione dell’aeroporto me la immagino divisa in felici e infelici, contenti e scontenti: questi felici di tornare a casa o di partire per la villeggiatura, quelli scocciati di tornare al lavoro, o dalle vacanze. Io no: io sono tra quelli che tornano magri.
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