Cucina

In memoria di Gualtiero

Anno del Signore 1992. Giovane e immaturo, salivo a Milano con la mia Honda Civic nera fiammante, appena ritirata in concessionaria, e alla Fiera del Mobile con abile mossa concludevo un ottimo ordine.

– Moni, sei a Milano? E stasera sei libera? Vieni a cena? È una sorpresa, mettiti carina. Ok, alle nove da te.

Il premio che su due piedi avevo deciso di concedermi per festeggiare quel buon ordine e per appagare i miei sensi era una cena nel miglior ristorante di Milano e d’Italia, quello che solo una manciata di anni prima aveva portato nel Belpaese le tre stelle Michelin, dopo oltre cinquant’anni dalla prima attribuzione del massimo riconoscimento a un ristorante, nel ‘33.

In Via Bonvesin Della Riva, sotto il livello della strada, con le finestre all’altezza degli stinchi dei passanti – i quali per curiosare, e lo facevano, dovevano perciò flettersi – il ristorante dei miei sogni aveva un’aura complessa: una sorta di minimalismo giapponese, una tavolozza di grigi milanesi, piccole sculture d’arte contemporanea al posto dei fiori sui tavoli, illuminati con una lampada Arco di Castiglioni ciascuno.

Tralascio i dettagli della mia ottima cena in compagnia perfetta.

Gualtiero Marchesi era lì. Ha salutato tutti gli ospiti, e a tutti ha stretto la mano e riservato una parola. Il più grande chef d’Italia, milanese, figlio di ristoratori, la leggenda, star ben prima che qualcuno parlasse di chef-star, futuro fondatore della scuola di cucina ALMA, era lì per noi.

Gualtiero però non era semplicemente un grande chef, un grande maestro o una star: era, per tornare al principio, il portale attraverso cui la haute cuisine – dopo lungo peregrinare oltralpe – è rientrata in Italia dalla porta principale.

Nelle sue esperienze in territorio francese, tra gli altri, Gualtiero Marchesi aveva lavorato presso il ristorante dei fratelli Troisgros a Roanne, gli stessi che assieme a Michel Guerard, a Paul Bocuse e a un pugno di altri chef di valore avrebbero iniziato la Nouvelle Cuisine, le migliori leve della scuola di Fernand Point, detto Magnum per il suo fisico imponente e per la consolidata abitudine di scolarsi una magnum di champagne al giorno, primo campione della guida – si veda sopra – nel 1933.

Marchesi dunque – ferme le sue profonde radici lombarde – in certo senso discende da Point, e ha fatto in Italia quel che Magnum fece in Francia: ha trasmesso i saperi dell’alta cucina, ha contribuito alla formazione di una scuola e di una generazione di valenti chef tra i quali Enrico Crippa, Carlo Cracco, Ernst Knam, Paolo Lopriore, Davide Oldani.

L’altra metà del cielo sarà rappresentata da Ferran Adrià (il cui valore Gualtiero riconosceva malvolentieri, prediligendo, alla sua cucina creativa, la cucina che definiva “della memoria”) e dai suoi ammaestramenti, e l’altra ancora – tale è il cielo della cucina – dagli insegnamenti di Slow Food. In questo gioco, Gualtiero è la grammatica, Adrià è il vocabolario, Slow Food è il foglio, e lo spirito di ogni chef è la penna.

“La cucina d’avanguardia è tecnica e spirito libero” ha detto una volta Moreno Cedroni, uno chef che nella sua formazione si è bagnato nell’alta cucina e in quella del Bulli di Adrià (così come anche Carlo Cracco). Bene, Gualtiero in questa proposizione era la tecnica, ed era uno spirito libero.

Non credete a chi presenta il risotto all’oro come suo piatto più rappresentativo. Io credo che invece quel piatto sia il raviolo aperto. Provate le sue ricette, la semplicità della sua mousse, i suoi risotti tirati a cottura con l’acqua.

Gualtiero Marchesi è uno di quegli uomini che oltre alle immortalità biologiche – della materia che continua a trasformarsi e dei figli – ha conquistato quella dei gesti, dei fatti, degli atti compiuti in vita e che riecheggeranno dopo la morte: non è più tra noi, ma vivrà ancora a lungo.

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